Ghostare!

Chi mi conosce lo sa, non sono proprio il tipo da social. Li apro, ci do un’occhiata distratta, li sfoglio giusto per tenermi aggiornato quel minimo indispensabile. Trenta minuti al giorno e poi li chiudo. Mi annoiano. Sarà che li ho frequentati troppo, sarà che li conosco fin troppo bene, avendoci anche lavorato per un periodo, ma non mi danno emozioni. Per questo ho tutto aperto: profili pubblici, niente notifiche, chi vuole guardare guardi, chi vuole seguire segua. Tanto le cose che ho voglia di condividere davvero, con i miei tempi e i miei modi, sono tutte qui dentro, in questo blog.
Qualche giorno fa, apro Instagram. Un follower nuovo. Un uomo. Nome che mi suona familiare. Foto profilo piccola, sfuocata, ma c’è qualcosa. Capelli rasati, sguardo sveglio, fisico asciutto e sullo sfondo una moto: Ducati 999 gialla. Gialla! Non rossa. Gialla Ducati, quella del 2005. Mi basta quello per ricordare tutto. È lui. Quel tipo che per un periodo mi è venuto a trovare in ufficio almeno sette, otto volte. Si sedeva e parlava a ruota libera e io ascoltavo. Mi aveva adottato come fratello maggiore, un po’ per l’età, un po’ perché, boh, forse trovava in me un equilibrio che a lui mancava. Raccontava le sue vicende con un misto di lucidità e confusione, una roba difficile da spiegare. Roba di relazioni, quasi tutte borderline. Niente che potesse finire in tribunale, ma roba che ti toglie il sonno, quello sì.
Lui l’aveva conosciuta per caso, per via del lavoro di lei, ed era molto più giovane. Parliamo di una differenza d’età quasi trentennale. I loro incontri erano casuali, duravano meno di un minuto, ma ripetuti nell’arco della giornata. Qualche battuta, un sorriso, qualche presa in giro bonaria. I colleghi di lei avevano notato qualcosa, ma non ci davano peso: era fidanzata, da tanto e pure con un suo collega. Tutto sembrava scivolare via senza conseguenze. Ma a volte sono proprio le cose più banali, quelle quotidiane e ripetitive, che scavano un solco profondo. Un gioco che comincia per scherzo, e piano piano si trasforma in un teatro emotivo con attori impreparati e un copione che nessuno ha scritto davvero.
Poi, una notte, un messaggio su Instagram. “Dormi già come gli anziani?”. L’una di notte. Era lei. Ci mette poco a realizzare, un’emoticon sorridente e da lì parte un botta e risposta leggero, ironico, ma pieno di complicità. Vanno avanti fino alle cinque di mattina. Da quel momento in poi, è un fiume. Chat quotidiane, notturne, senza mai scadere nel volgare o nell’esplicito. Ma profondissime. Lei si apre, racconta tutto di sé: l’infanzia, i disagi, il compagno che non la capisce, i sogni nel cassetto. Una confidenza che travalica ogni logica di amicizia. Lui ascolta, consiglia, risponde. Non si sbilancia troppo, le racconta poco di sé, perché l’età insegna anche a proteggersi. Ma c’è. E quel suo esserci, sempre, diventa per lei una droga.
Si crea una routine emotiva che sembra innocua, ma è tutto tranne che innocua. Una piccola gabbia dorata. Di quelle che costruisci un messaggio alla volta, un vocale alla volta, senza accorgertene. Lei inizia a contare su di lui, lo cerca come si cerca una medicina, un rifugio. Una via di fuga dalle sue insoddisfazioni. E lui, bravo uomo adulto con un passato sentimentale piuttosto strano, da persona libera prova piacere ad avere un’amicizia così bella con quella presenza femminile, anche molto piacevole a giudicare dalle foto.
Poi comincia a cambiare qualcosa. Lei si infastidisce se lui non risponde subito. Fa battute sul fatto che vada a cena fuori o che esca con delle donne. Gli chiede se è da solo mentre chattano (cavolo, ma è lei quella fidanzata com’è possibile sia sempre in DM con lui a ogni ora del giorno e della notte, mi chiedo io). Se lui posta una storia, lei è lì, pronta a commentare. Sempre in modo scherzoso, ma con un retrogusto acido che non passa inosservato. Lui comincia a capire che quel filo sottile si sta tendendo troppo. Prova a rispondere meno, a prendersi spazio, ma lei è insistente.
Lui un giorno torna da me con le chat in mano. “Puoi leggere queste?”, mi chiede. Lo ammetto, la mia mimica facciale lascia poco spazio: le prendo controvoglia e le leggo. Messaggi lunghi, fitti, incastrati in notti insonni. E vedo lui che, a un certo punto, prova a metterle un freno. “Eh BY (nomignolo chele aveva dato) non va bene”, le scrive. “Non puoi comportarti così, sei tu quella con un legame affettivo, non io.” “Controllati se non vuoi andare oltre”.
Lei glissa, svicola, sorride con le parole. Lui si innervosisce, respira a fondo, aspetta in silenzio ma ha la testa che esplode. Poi, arriva il messaggio che cambia tutto. “Sono una ragazzina, mi sono lasciata prendere dal tuo essere, da un uomo che mi capisce e mi accarezza con un semplice ciao, da quel qualcuno che ogni donna vorrebbe, ma ho paura di questa onda di emozioni”. Il classico, maledetto “vorrei ma non posso”. Un messaggio che sembra scritto con il cuore, ma puzza di testa in confusione. Una specie di lasciapassare emotivo per continuare a flirtare senza assumersi la responsabilità.
E lì, lo guardo e glielo dico. “Ghostala”. Secco. Senza spiegazioni. Quando ci vuole, ci vuole! Mi guarda come se avessi bestemmiato. “Ma non è giusto”, dice. “Non è corretto”. E io: “Corretto per chi? Per te che ti sei comportato bene al punto da dirle di non esagerare? Per te che l’hai ascoltata, l’hai rispettata, le hai dato attenzione, hai provato a parlare chiaro? Lei ha scelto l’ambiguità. Tu scegli la pace.”
Ghostare non è sempre codardia. Non si tratta di scappare, ma deve andare di pari passo con il perdonare (per-donare). A volte è una forma di rispetto e una mano tesa. Se non ci riesci tu, lo faccio io. È l’unico modo per chiudere una porta che l’altro continua a lasciare socchiusa. E questo era il caso specifico, secondo me. Quando una persona non sa rinunciare a te, ma nemmeno sceglierti, l’unico gesto d’amore vero che puoi fare è sparire.
Lui ha seguito il consiglio. Non so con che modalità, l’unica cosa certa è che a oggi ha metabolizzato la cosa e mi dice grazie. E lo dice davvero, con un tono sereno, senza amarezza. Mi ha anche raccontato di aver ritrovato lucidità in altre cose, che questa storia gli aveva un po’ offuscato la testa. E poi, come succede spesso nella vita, appena riacquisti un po’ di equilibrio, ecco che ti arriva un’altra scossa.
“Ti devo raccontare un’altra storia”, mi dice l’altro giorno al telefono. Stesso tono di chi ha trovato un biglietto per un film già visto. “Un’altra?” chiedo. “Eh sì… un’altra. Diversa, ma non troppo.”
Ha conosciuto una ragazza la stavo per investire con la bicicletta, ero nel torto ma lei non mi ha visto perché china sul cellulare.
È molto bella, (confermo, ho visto le foto è veramente una statua di bellezza) abbiamo anche già avuto rapporti però è strana: cerca qualcosa ma non sa cosa.
Ok, d’accordo, me lo racconti un’altra volta, ma non ti far venire la sindrome del crocerossino, non salvarla. Guarda e passa. Ha 15 anni meno di te, mi hai detto che ha un matrimonio fallito alle spalle … ma dove c… le trovi? Dai, ci risentiamo.
E così, tra un messaggio e l’altro, tra una risata amica e una storia interrotta, ci troviamo di nuovo a parlare di sentimenti come fossero meccanismi, a tentare di decifrare le emozioni, cosa impossibile perché cambiano forma ogni volta che pensi di averle capite. Ma almeno ora, sia lui che io, perché si impara sempre qualcosa, abbiamo compreso come ci siano persone che vanno lasciate dove sono. Che non tutto va chiarito, non tutto va sistemato. Alcune cose vanno solo lasciate andare.
Chissà, forse se la nuova storia ha risvolti interessanti magari la racconto!
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