Igor

A volte mi chiedo come certe storie vissute, certe emozioni e sensazioni possano restare sopite per anni, quasi addormentate dentro di noi, fino a quando, grazie a una semplice parola, riemergono con forza, quasi con violenza, al punto da costringerci a rimetabolizzarle.
Pochi giorni fa ero al mare. Entro in un piccolo supermercato per fare la spesa e, tra le solite persone che da giorni stazionano nei pressi in cerca di aiuto e comprensione, noto un volto nuovo. Un ragazzo… o meglio, un uomo, sui trentacinque, forse quaranta anni. Barba lunga, trascurata come i capelli e l’abbigliamento. Non l’avevo mai visto prima. Gli passo davanti, mi saluta con voce flebile, timida, forse più trattenuta dalla vergogna che dalla reale mancanza di fiato. Gli rispondo al volo e entro.
Compro le mie cose, aggiungo una bottiglia d’acqua e all’uscita lo rincontro. Gliela allungo, fa caldo, anche all’ombra. Mi ringrazia ma non mi guarda in viso. E io, per uscire dall’impasse, faccio l’unica cosa che mi viene in mente: «Di dove sei?»
«Sono serbo», mi risponde.
Vado via, ma intanto le domande mi restano appiccicate addosso. Non ho idea di cosa possa essergli successo. La guerra nei Balcani è finita da anni, i popoli di quelle terre sono fieri, orgogliosi, non se ne sente quasi più parlare nelle cronache. Eppure, quel “serbo” associato alla parola guerra, unito all’immagine di quell’uomo che a malapena reggeva lo sguardo, ha risvegliato in me un ricordo. Un ricordo che porta un nome, e io dentro di me ho pensato: cazzo… Igor.
Una sera, non ricordo l’anno preciso ma il periodo era questo, mi trovavo in servizio. Arriva una richiesta di intervento al pronto soccorso dell’Ospedale Maggiore di Bologna. Noi eravamo in Largo Nigrisoli, praticamente a trecento metri. Prendo il microfono: «Siamo già qui, andiamo noi».
Saliamo con la macchina sulla rampa di accesso. In fondo c’è uno slargo, lo spazio per le manovre delle ambulanze. Lo scenario mi appare subito chiaro: una guardia giurata e un infermiere in piedi, davanti a un uomo seduto su un gradino. Carnagione chiara, capelli biondi tagliati a spazzola, maglietta a maniche corte. Un particolare mi colpisce immediatamente: da seduto era alto quanto le persone in piedi davanti a lui, eppure io lo vedevo solo di profilo e in penombra. Più mi avvicinavo, più capivo di avere davanti una massa fisica imponente.
Scendiamo dall’auto, lui ci vede, rimane immobile. Chiedo alla guardia giurata e all’infermiere cosa fosse successo. L’uomo continua a fissarmi, senza proferire parola. Capirò solo dopo il perché. La guardia mi racconta che quell’uomo era entrato in pronto soccorso, senza dire nulla, aveva raggiunto l’armadio dei farmaci stupefacenti, quelli usati per calmare i pazienti agitati, e aveva preso due flaconi di un potente ansiolitico e sonnifero: il Darkene.
Ora, per capirci: il Darkene si somministra nelle fasi acute in dosi da 0,5, ovvero poche gocce singole, due o tre al massimo. Lui aveva bevuto due flaconi interi da 30 ml.
Domando subito se avesse fatto male a qualcuno, se avesse danneggiato qualcosa. Risposta: no. Era entrato con quel fisico imponente – due metri di altezza, forse 120 chili – aveva semplicemente individuato dove si trovava ciò che cercava e ne aveva sottratto solo quello che gli serviva. Giusto per rendere l’idea, io sono alto circa 1,80, all’epoca ero 90 chili, mi allenavo, ero robusto… ma lui aveva le spalle il doppio delle mie, le braccia più grosse delle mie gambe, un collo che non sarebbe entrato in nessuna camicia in commercio. Un toro travestito da cavallo, per rendere l’idea.
Eppure, invece di essere steso a terra in preda al sonno profondo, era lì: calmo, pacato, apparentemente lucido. Nessun segno dell’effetto devastante che due flaconi di Darkene dovrebbero avere su un corpo normale. Una cosa inspiegabile.
Mi accendo una sigaretta – allora fumavo ancora – e lui mi fissa. Non parla, non dice nulla. Capisco al volo, gli passo la sigaretta accesa. Allunga la mano per prenderla e mi accorgo che è una mano proporzionata al resto del suo fisico: una mano che avrebbe potuto coprirmi completamente il volto.
Tecnicamente si era reso responsabile di furto, si va bene, per i puristi di farmaci catalogati come stupefacenti, ma la procedura mi dava la facoltà di procedere con una denuncia in stato di libertà. Ma serviva un documento d’identità. Gli chiedo se ce l’ha. Nessuna risposta. Non perché non volesse: non capiva proprio cosa gli stessi chiedendo.
Uso allora il metodo più banale: tiro fuori la mia carta d’identità, gliela mostro, indico me e poi indico lui. Allora, dalla tasca posteriore dei jeans, estrae un passaporto serbo. Nome, cognome, foto, timbri ufficiali: documento valido.
Provo a spiegargli che avrei dovuto denunciarlo, che ci sarebbe stato un processo, tempo perso, gli nominai un avvocato d’ufficio e elessi il suo domicilio legale lì. Non avevo altra strada. L’esperienza insegna.
Quello che mi colpiva, però, era altro: avevo davanti un uomo imponente, potenzialmente pericoloso, eppure nei suoi occhi non vedevo aggressività. Nonostante l’effetto dei farmaci, o forse proprio per quello, il suo sguardo trasmetteva soltanto pacatezza, quasi smarrimento. Forse ho peccato di presunzione, ma mi sono fidato: stavo lì, a un metro di distanza, mentre i miei colleghi in divisa, la guardia e l’infermiere, saggiamente erano a quattro metri, diffidenti e – fortunatamente – pronti a scattare.
Incuriosito, gli feci cenno di alzarsi. Lui si tirò su di scatto, quasi marziale, come se avesse riconosciuto nella mia divisa un’autorità familiare, un riflesso del passato, e già lì avevo intuito qualcosa: aveva una forma mentis militare.
A forza di gesti, di poche parole in italiano e in inglese, mi raccontò pezzi della sua vita. Ex soldato semplice dell’esercito serbo, aveva fatto la guerra, poi era scappato. Volevo capire di più, capire perché entrava negli ospedali a prendere quel sonnifero devastante. Gli feci il gesto, il riferimento al farmaco, e lui capì subito. Si indicò la tempia con il dito, picchiettando: “Ho qualcosa qui dentro”. Non servivano parole.
E poi, all’improvviso, si rimise a sedere. Fece il gesto di cullare un bambino tra le braccia. Io rimasi spiazzato. Non capivo. Pensai: ha perso un figlio in guerra? Gli hanno ammazzato un fratello? Un bambino, qualcuno di caro? Non sapevo. Ma in quel gesto c’era tutto il suo dolore, un dolore che non trovava traduzione né in italiano né in inglese, e che a me arrivava addosso come un pugno nello stomaco.
Si stava lasciando andare, sempre di più. Come se, a poco a poco, si aprisse un varco tra i suoi silenzi e i suoi gesti. Cominciò a mimare le curve del corpo di una donna, a disegnarle nell’aria con le mani grandi, poi si ingobbì, si accartocciò su se stesso, sfregandosi il viso con la mano come a simulare un anziano stanco, consunto. Io lo seguivo, ma più cercavo di interpretare quei gesti, più la confusione mi avvolgeva e il dolore allo stomaco aumentava.
Poi, improvvisamente, puntò lo sguardo sulla mia pistola. Non c’era esitazione, nessun tentennamento: con un automatismo familiare, rapido e sicuro, mimò il gesto di mettere i proiettili nel caricatore, di armarla. Io lo osservavo senza fiatare. Subito dopo, però, scosse il dito in segno di diniego: quel “no” non era una minaccia, significava semplicemente che non aveva le cartucce.
Allargo le braccia, scuoto la testa, cerco di fargli capire che non comprendo, che non riesco a seguirlo fino in fondo. E dentro di me penso che, a saperlo prima, forse era meglio lasciar perdere: non spingere oltre quel linguaggio fatto di gesti spezzati, mezze verità e ricordi che sembravano bruciare ancora addosso a quell’uomo.
Lui allora mi mostra le sue mani enormi. Se le passa sul viso lentamente, come a volersi cancellare i pensieri di dosso, poi con un gesto improvviso si colpisce le tempie con il palmo aperto, a ripetizione. Mi blocco. Sbianco. Per un attimo mi manca il respiro. E in quell’istante capisco. Purtroppo capisco.
Avevo intuito cosa quelle mani erano state costrette a fare. Quando non c’erano cartucce da sparare, quando le armi erano vuote, toccava a loro, ai soldati, “finire il lavoro” con le mani. Mani enormi, mani implacabili, usate come armi vere, forti di un fisico imponente. Non per scelta, ma perché costretti dai superiori, trascinati dentro ordini che non ammettevano rifiuto, incatenati a una guerra che – come tutte le guerre – è sempre e soltanto una tragedia per chi la combatte, a prescindere da chi venga proclamato vincitore.
Aveva dentro di sé quelle immagini, nelle orecchie quelle urla, nel cuore quel dolore; quella paura di sé stesso e di ciò che aveva fatto non riusciva a sopirla: lo perseguitava lungo un cammino verso un futuro che non c’era e che forse non voleva. Non si dava pace: come avrebbe potuto? E quando arrivava al culmine, ricorreva all’unico modo che conosceva per sopravvivere qualche ora senza incubi: il sonnifero, in dosi massicce.
Lui non mi guarda più. Io non ho il coraggio di andare oltre. Mi giro e vedo i colleghi che hanno finito di compilare i moduli di rito. Gli chiedo di firmare: esegue come un soldato. Piego la sua copia, il mio pacchetto di Marlboro e l’accendino, glieli metto in mano. Lui prende tutto, si alza e si allontana con passo lento verso il suo destino.
Prendo il microfono: intervento risolto, siamo di nuovo operativi.
Rimango lì, con il sapore del fumo e del metallo in gola. Fuori, la notte è la stessa di sempre. Dentro, no.
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