Il valore delle parole

Ci sono parole che entrano leggere come piume e altre che arrivano come pietre. Oggi, spesso, non sappiamo più distinguerle. Non perché abbiano perso la loro forza, ma perché il nostro modo di usarle e riceverle le ha cambiate, fino a trasformarle in qualcosa che somiglia a una copia sbiadita della verità.
Viviamo immersi nella comunicazione, eppure mai come oggi rischiamo di non capirci. Non per mancanza di parole, ma per eccesso. Non per silenzio, ma per rumore. È come se l’abbondanza avesse svuotato il significato, come se il troppo ci avesse fatto perdere il poco che davvero conta.
Un tempo le parole erano vive perché accompagnate dalla voce, sorrette da uno sguardo, incarnate da un gesto. Oggi viaggiano spoglie, affidate a schermi che le rendono veloci ma fragili. Sono come biglietti lasciati al vento: possono arrivare intatti, ma basta poco perché si deformino.
Il paradosso è evidente: più corriamo dietro alla comunicazione, più rischiamo di perderla. Scriviamo tanto, ma ci diciamo poco. Ci illudiamo che un’emoji possa sostituire un abbraccio, che tre parole digitate abbiano lo stesso peso di tre parole dette. Ci dimentichiamo che la voce è corpo, respiro, verità.
Quando leggo un messaggio, non sento la voce di chi lo ha scritto. Sento la mia. È il mio stato d’animo a colorare quelle parole. Se sono sereno, ci vedo dolcezza. Se sono agitato, distacco. Se cerco conferme, me le invento. Quello che arriva non è mai quello che parte, ma quello che io ci voglio vedere.
E allora capisci che la parola scritta è fragile, vulnerabile alle interpretazioni. Una frase può diventare un romanzo intero dentro la testa di chi legge. Un punto può sembrare una sentenza. Un cuore può illudere, un silenzio ferire. Tutto senza che dall’altra parte ci fosse davvero l’intenzione.
La parola detta, invece, non lascia spazio a questo gioco. Arriva intera, con la voce che la porta, con il respiro che la accompagna, con le pause che la spiegano. Una voce non puoi travisarla: se trema lo senti, se ride lo percepisci, se si fa grave capisci che c’è qualcosa. La voce è onesta anche quando prova a mentire, perché vibra, perché svela.
E poi ci sono i gesti. Un abbraccio è un abbraccio, un sorriso è un sorriso, uno sguardo è uno sguardo. Non serve interpretare, non serve ricamare. Ti arrivano addosso e raccontano tutto. In quell’istante sai se c’è calore o distanza, senza bisogno di parole.
È lì che ti accorgi di quanto ci siamo abituati male. Di quanto ci siamo illusi che la velocità potesse sostituire la presenza, che l’immediatezza potesse rimpiazzare la profondità. Ma non funziona così. Un messaggio puoi rileggerlo cento volte e capirlo in cento modi. Uno sguardo lo vivi una volta sola, e quella basta.
Io, personalmente, ho imparato a fare una scelta. Non lascio che un messaggio mi travolga, non gli permetto di diventare più grande di quello che è. Lo leggo, gli do il peso del momento, ma non lo trasformo in promessa né in verità assoluta. La scrittura digitale non basta a dire tutto: è solo un frammento, un soffio, un segno. Lo accolgo per quello che è, senza costruirci castelli intorno. Non mi lascio coinvolgere troppo, non mi illudo. Perché la verità non sta lì dentro, ma nelle parole dette, nei gesti vissuti, negli sguardi che non hanno bisogno di spiegazioni.
Eppure, quante volte ci aggrappiamo a un simbolo, a una parola scritta, come se fosse un tesoro nascosto. Restiamo a fissare lo schermo, a rileggerla, a cercare significati che non ci sono. È un bisogno umano: trovare risposte, leggere oltre. Ma spesso non c’è niente oltre. Ci siamo solo noi, con i nostri desideri e le nostre paure.
Intanto ci sfugge il semplice. Ci sfugge che le cose vere non hanno bisogno di codici né di simboli. Si mostrano da sole, senza filtro. Ci sfugge che un sorriso dal vivo è cento volte più chiaro di una frase letta mille volte.
Io preferisco stare nel silenzio, nello sguardo, nel contatto. Perché lì non servono interpretazioni. Lì non rischi di sbagliare. Lì non c’è spazio per illusioni: c’è solo la realtà, nuda e intera.
Le parole scritte, lo so, hanno un fascino: ti permettono di fermarti, pensare, rileggere. Ma hanno un difetto enorme: ti permettono di costruire mondi che non esistono. Mondi più belli o più brutti della realtà, ma comunque irreali.
Le parole dette invece ti inchiodano all’adesso. Non puoi fermarle, non puoi modificarle. Le vivi lì, in quell’istante, e quello diventa verità.
Il valore delle parole non è diminuito: siamo noi ad averlo dimenticato. Lo abbiamo smarrito tra segni, dettagli e simboli. Ci siamo scordati che la parola non è solo testo, ma voce, corpo, gesto.
Eppure basta poco per ricordarlo: un incontro, uno sguardo, un abbraccio. Tutto quello che cerchiamo nei messaggi, in realtà, è già lì, nel contatto umano che ci siamo disabituati a vivere.
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